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Riflessioni sulla morte, letteratura pittura... persino vignette

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bluette
view post Posted on 12/3/2005, 11:50     +1   -1




Dal post di Astarte un spunto per un argomento un po' macabro?

RIFLESSIONI SULLA MORTE

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La morte di Ivan Il'ic - di Lev Tolstoj
Amabili resti - di Alice Sebold
Il fu Mattia Pascal - di Luigi Pirandello


"La morte: pensarci molto e parlarne poco". Non ricordo chi lo scriveva, ma è un'altra conferma di quanto l'argomento sia scomodo. Tanto più oggi, tempo in cui prevale la cultura dell'apparire, sempre e comunque, sani, belli e sicuri di sé. Tempo in cui l'importante è essere upgradati, downloadare e customizzare le più varie esigenze (quando non ci si riesce è questione di attimini). Proprio per questo, ho scelto due autori classici e un best-seller contemporaneo per parlare di morte. Perché è sempre uguale e sempre diversa. Quella di Ivan I'lic chiede rispetto, quella di Susie Salmon, come ha scritto Luciana Littizzetto - brava attrice e gran divoratrice di libri - "riconcilia con la vita", quella del fu Mattia Pascal insegna che dei morti, come di tante altre cose, ci si dimentica in fretta, troppo in fretta.




La morte di Ivan Il'ic, di Lev Tolstoj


Ivan Il'jc Golovin, consigliere di Corte d'Appello, uomo "in carriera" dalla brillante vita sociale, cade da uno sgabello e prende un colpo al fianco. Una piccola banalità che, però, con l'andar del tempo, fa crescere parallelamente il dolore fisico e insieme l'intima angoscia del magistrato: nella coscienza di Ivan Il'jc si insinua l'idea della morte, nella realtà di tutti i giorni viene allo scoperto la falsità di chi vive vicino a lui e lo sopporta. Romanzo crepuscolare? Forse, ma potrebbe anche essere uno degli articoli dei quotidiani di oggi, uno di quelli che non leggiamo mai, da ultima pagina. Oppure, uno di quelli firmati da Cesare Fiumi, così ricchi di storie borderline. Perché l'impressione che rimane, dopo aver letto questo lungo racconto, è che niente è più semplicemente attuale di così.

"Il tormento maggiore di Ivan Il'ic era la menzogna, quella menzogna da tutti accettata, secondo la quale egli era soltanto ammalato e non moribondo ed era sufficiente ch'egli se ne stesse tranquillo e si curasse, perché tutto tornasse come prima. Mentre egli sapeva benissimo che qualunque cosa facessero, non ne sarebbe venuto fuori nulla, tranne sofferenze ancora maggiori e morte. Questa menzogna lo tormentava, come pure l'ostinazione con cui gli altri non volevano ammettere ciò che sapevano, ciò ch'egli sapeva. Volevano continuare a mentire sulla sua orribile condizione e volevano costringerlo a partecipare a questa menzogna. Una menzogna ai suoi danni, alla vigilia della sua morte, una menzogna finalizzata a ridurre l'atto terribile e solenne della sua morte al livello delle loro visite, delle loro tende, degli storioni per il pranzo. Questo era ciò che affliggeva Ivan I'lic. E di frequente gli era capitato, mentre loro arrivavano a recitare la loro parte, di essere stato sul punto di gridare: smettetela di mentire, voi sapete bene, come lo so io, che sto morendo, smettetela dunque. Ma non aveva mai trovato il coraggio di farlo".




Amabili resti, di Alice Sebold


Nella narrativa le storie di infanzie violate, privazioni, affetti negati si fanno sempre più frequenti, e non solo per quanto riguarda la letteratura americana contemporanea, di cui l'autrice è una interessante esponente. Anzi, in questo caso, mentre si scende in un abisso ancora più profondo l'Io narrante di Susie Salmon, una ragazzina violentata e brutalmente uccisa, ci porta lievemente per mano a vedere le cose dal suo Cielo. E a riconsiderarle, riconciliandoci appunto con la vita. Così, insieme a Susie anche noi leggiamo nel nostro cuore e nella nostra mente, per capire quanto sono importanti i piccoli gesti, le parole che abbiamo in bocca e non diciamo mai, le persone con cui viviamo e che ci illudiamo di conoscere.

"Pochi mesi prima che morissi, mi aveva trovata così, ma infilato sotto le lenzuola insieme a me c'era Buckley in pigiama con il suo orsacchiotto, che dormiva succhiandosi il pollice, rannicchiato contro la mia schiena. In quell'istante aveva avvertito la prima avvisaglia di quella strana e triste sensazione di mortalità insita nell'essere padre. La sua vita aveva generato tre figli e quel numero lo tranquilizzò: qualsiasi cosa fosse successa ad Abigail o a lui, loro tre si sarebbero aiutati l'uno con l'altro. Così la stirpe alla quale aveva dato inizio gli sembrò immortale, come un forte filo d'acciaio che si intrecciava al futuro e continuava dopo di lui a prescindere da dove o quando lui sarebbe caduto. Perfino nella profonda, candida vecchiaia. Adesso ritrovava la sua Susie nel figlio minore. Dà quell'amore ai vivi, si disse, e se lo disse ad alta voce dentro di sé; ma la mia presenza era come una corda che lo legava e lo tirava indietro, e indietro, e indietro. Fissò il ragazzino che teneva tra le braccia. "Chi sei tu?" si sorprese a chiedere. "Da dove sei venuto?". Guardai mio padre e mio fratello. La verità era molto diversa da quella che ci insegnano a scuola. La verità era che la linea tra i vivi e i morti, a quanto pareva, poteva essere opaca e sfumata".




Il fu Mattia Pascal, di Luigi Pirandello


L'incontro con la morte fu un'esperienza molto precoce per il Pirandello uomo. Giocando a nascondino con altri ragazzi nel cimitero della campagna di Caos, finì dentro una camera mortuaria e trovò un cadavere, coperto da un lenzuolo bianco, disteso sopra un tavolo d'acciaio. A smuoverlo dal terrore che lo impietriva fu il rumore di svolazzo, tenue ma ossessivo, che arrivava dalla stanza accanto: due amanti clandestini stavano facendo l'amore e Luigi, dalla porta aperta, li vide. Forse è per questo imprinting che, nelle opere di Pirandello, Eros e Thanatos vanno sempre insieme. In quello che può essere considerato il suo capolavoro, il protagonista è addirittura sospeso tra la vita e la morte, schiavo della propria libertà e di un'identità che altri hanno costruito per lui. Allora, per ritornare ad esistere, Mattia Pascal è costretto a morire, virtualmente, di nuovo.
"Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal".

"Avevo già sperimentato come la mia libertà, che a principio m'era parsa senza limiti, ne avesse purtroppo nella scarsezza del mio denaro; poi m'ero accorto ch'essa più propriamente avrebbe potuto chiamarsi solitudine e noia, e che mi condannava a una terribile pena: quella della compagnia di me stesso; mi ero allora accostato agli altri; ma il proponimento di guardarmi bene dal riallacciare, foss'anche debolissimamente, le fila recise, a che era valso? Ecco: s'erano riallacciate da sé, quelle fila; e la vita, per quanto io, già in guardia, mi fossi opposto, la vita mi aveva trascinato, con la sua foga irresistibile: la vita che non era più per me. Ah, ora me n'accorgevo veramente, ora che non potevo più con vani pretesti, con infingimenti quasi puerili, con pietose, meschinissime scuse impedirmi di assumer coscienza del mio sentimento per Adriana, attenuare il valore delle mie intenzioni, delle mie parole, de' miei atti".

di Sgamarillo
http://www.artifexlibris.com





 
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bluette
view post Posted on 12/3/2005, 12:06     +1   -1






la morte ci può cogliere quando meno te l'aspetti!


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bluette
view post Posted on 12/3/2005, 13:22     +1   -1




L'avvincente brano di Poe che segue ha ispirato anche la filmografia e la narrativa moderna; Poe compare anche all'inizio del romanzo che ha decretato il successo mondiale di Stephen King, Shining, che si apre con un lungo passo tratto da uno dei racconti più belli e incredibilmente raccapriccianti di Poe, "La Maschera della Morte Rossa", che parrebbe proprio aver ispirato alcuni degli elementi fondamentali del libro.
La Morte Rossa è l'orribile morbo che ha spopolato le terre del principe Prospero; questi si rifugia con una scelta compagnia in uno dei suoi castelli, e, tra banchetti e danze, tenta di dimenticare la morte e la sofferenza che lo circondano in un volontario isolamento. Ma sarà il castello stesso, o meglio, gli eccentrici appartamenti in cui si svolge un fastoso ballo in maschera, a "lasciar entrare" la Morte Rossa; allo stesso modo, la reclusione nell'hotel Overlook, che Jack Torrance impone a sè stesso e alla sua famiglia, non servirà a fargli ritrovare la serenità e la vena creativa, ma soltanto a scatenare la sua follia omicida. Il motivo della festa danzante viene ripreso poi, con effetti decisamente macabri,in una delle scene madri di Shining.



LA MASCHERA DELLA MORTE ROSSA

di Edgar Allan Poe



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In un paese e in un tempo lontano e indefinito, una terribile epidemia si diffonde ogni giorno di più portando morte e devastazione. Il principe Prospero è però convinto che la sua ricchezza e il suo potere lo rendano invulnerabile. Si rinchiude quindi in uno splendido e inquietante castello con una compagnia di amici scelti, sicuro di essere più forte del male.

Per lungo tempo la Morte Rossa aveva spopolato la contrada.

Mai s’era vista una pestilenza tanto orribile, tanto fatale! Il male si attaccava al sangue, e si manifestava in tutto il rosso orrore del sangue. Chiazze purpuree sulla pelle,sulla pelle del volto in ispecie, rendevan le vittime così ripugnanti che venivan fuggite da tutti,lasciate senza conforto né aiuto. Il manifestarsi del male e il suo progredire e risolversi erano in tutto questione d’una mezz’ora. Ma il principe Prospero restava ugualmente felice e dimostrava il proprio coraggio e la propria sagacia. Quando vide che le sue terre s’erano per metà spopolate convocò un migliaio circa dei suoi amici, tutti pieni di vita e di baldanza, scegliendoli tra cavalieri e dame della sua corte, e riparò con essi nel remoto rifugio d’una delle sue abbazie fortificate, ch’era edifizio vasto e magnifico, creazione sua personale, di stile eccentrico e nondimeno grandioso, cinto di spesse ed alte mura nelle quali si aprivano delle porte di ferro.

Quando i cortigiani furono là dentro, col fuoco e dei buoni martelli saldarono ogni serratura, intendendo così di assicurarsi contro chi stava fuori, e di chiudere ogni via d’uscita a chi stava dentro. L’abbazia fu largamente munita di provviste. Con simili precauzioni i cortigiani potevano sfidare il contagio. Se la vedesse con esso chi stava fuori. Intanto, sarebbe stata follia affliggersi o solo darsene pensiero. Il principe aveva provveduto a tutti i mezzi del piacere. Si era portato dietro buffoni, improvvisatori, musici e ballerini. E poi la bellezza, il vino... C’era tutto questo e la sicurezza al di dentro. Fuori, la Morte Rossa.

Sulla fine del quinto mese, o sesto che fosse, del suo ritiro, mentre fuori la pestilenza infieriva più che mai, il principe Prospero offrì ai suoi mille amici un ballo in maschera, straordinario di magnificenza.

Voluttuoso spettacolo, la mascherata. Ma anzitutto importa descriver le sale ov’esso ebbe luogo. Sette erano, in una fuga d’imperiale grandiosità. Le stanze erano così irregolarmente disposte che l’occhio non riusciva ad abbracciarne più di una alla volta. Ad ogni venti o trenta metri vi era una brusca svoltata, e ad ogni svolta si aveva uno spettacolo di effetto assolutamente nuovo. A destra e a sinistra, nel mezzo di ogni parete, un’alta e stretta finestra gotica si apriva sopra un corridoio. Ogni finestra era a vetri colorati i cui colori variavano da sala a sala per essere in armonia con le decorazioni delle singole stanze. Ad esempio, la stanza che si trovava all’estremità orientale, tutta tappezzata in azzurro, aveva le finestre luccicanti di celeste.

La stanza che seguiva era decorata in rosso porpora, e i vetri delle sue finestre erano purpurei. La terza, interamente verde, aveva finestre dai vetri verdi. E allo stesso modo era arancione la quarta, bianca la quinta, viola la sesta. La settima stanza era fittamente rivestita, soffitto e pareti, di tappezzerie in velluto nero che ricadevano in pieghe pesanti sopra un tappeto di uguale stoffa e colore. Solo in quella stanza il colore dei vetri delle finestre non corrispondeva a quello della decorazione. Là erano scarlatte le invetriate, scarlatte con l’intensità del sangue. Ora, in nessuna delle sette sale si vedevano lampade o candelabri. Non esisteva luce alcuna di lampada o di candela per tutto quel seguito di stanze. Eppure nel corridoio che lo cingeva, e precisamente dinanzi ad ognuna delle finestre, ardeva su un enorme tripode, un braciere che proiettava attraverso i vetri colorati i suoi raggi riempiendo d’una fulgida luce la stanza. Nel qual modo s’erano ottenuti infiniti effetti di fantastico sfarzo. Ma è da notarsi che nella camera a ponente, quella nera, la luce riverberata attraverso i vetri color di sangue sulle funebri tappezzerie riusciva sinistra all’estremo e dava ai volti di chi vi entrava un così selvaggio aspetto che ben pochi della compagnia avevano il coraggio di varcarne la soglia.

Per l’appunto in quella sala si trovava, appoggiato al muro di ponente, un gigantesco orologio d’ebano. Andava il pendolo con un sordo, pesante, monotono rintocco; e tutte le volte che la lancetta dei minuti aveva compiuto il giro del quadrante, e l’ora stava per scoccare, un forte, profondo, chiaro suono musicale usciva dai polmoni di ottone della macchina, tanto particolare e solenne che, ad ogni ora, i musici dell’orchestra eran costretti a far pausa per ascoltarlo; cosicché quanti danzavano dovevano in­terrompere le loro evoluzioni, e la gaia compagnia veniva colta da un momentaneo turbamento che faceva impallidire i più agitati mentre le persone più calme ed anziane si passavano la mano sulla fronte quasi meditassero o si trovassero in preda a qualche imbrogliata fantasticheria. Appena però gli echi di quel suono erano svaniti, una lieve ilarità serpeggiava tra i festanti; e i musici, guardandosi a vicenda, sorridevano del loro stolto nervosismo, e si scambiavano sottovoce il giuramento di non lasciarsi impressionare dai prossimi rintocchi; ma ecco che, trascorsi sessanta minuti, ossia tremilaseicento secondi, l’orologio tornava a suonare, e si ripetevano il turbamento, l’agitazione, le preoccupazioni di prima. Ma, nonostante tutto, la festa trascorreva in gaia magnificenza. il principe era di gusti singolari, e aveva finezza d’occhio per i colori e i loro effetti.

Nell’occasione di quella grande festa egli aveva curato di persona l’abbellimento delle sette sale, e aveva imposto il suo gusto per i travestimenti delle maschere. C’era del bello, del bizzarro, un po’ di terribile anche, ma soprattutto cose che destavano ripugnanza. Era una moltitudine di sogni che camminava impettita per le sette stanze. E si contorcevano, codesti sogni, per ogni verso, cambiando colore col passare da una stanza all’altra, mentre la musica dell’orchestra sembrava l’eco dei loro passi. E di tratto in tratto ecco che batteva l’orologio d’ebano della sala di velluto. Tutto, allora, per un momento, diveniva fermo, silenzioso, e non s’udiva che la voce dell’orologio. I sogni restavano come agghiacciati nelle posizioni in cui si trovavano. Ma poi svaniva l’eco dei rintocchi — non s'era trattato che di un attimo — e un riso leggero, per metà soffocato, correva tra i festanti, E la musica tornava ad alzarsi, i sogni riprendevano a muoversi colorendosi del colore che il fuoco dei tripodi riversava su di loro attraverso i vetri delle finestre, ma nella stanza in fondo, giù a ponente nessuna maschera osa più avventurarsi. E' notte ormai e la luna fluisce più rossa traverso i vetri color di sangue, e terribile è il bruno delle funebri tappezzerie, e a chi mette piede sui lugubre tappeto, più solenne e largo arriva il rumore dei rintocchi, assai più che non arrivi alle orecchie di chi si sofferma a folleggiare più lontano, nelle altre stanze. Nelle quali, gremite di gente, pulsava con ritmo febbrile il cuore della vita. E la baldoria turbinò e turbinò sino a che infine cominciò a rintoccar mezzanotte e, come al solito, la musica s’arrestò, le danze vennero interrotte, e ogni cosa rimase immobile in penosa sospensione. Ma stavolta erano dodici colpi, per cui può darsi che le riflessioni di quanti, tra quella folla in baldoria, erano ancora capaci di pensare, fossero più lunghe e profonde. E per questo, forse, prima che l’ultima eco dell’ultimo rintocco venisse del tutto sommersa dal silenzio, venne fatto a parecchi notare la presenza di una maschera di cui sino allora non si era accorto nessuno. Come la notizia di tale intrusione fece il giro delle sale, un ronzio si levò da tutta la folla, un mormorio di sorpresa e disapprovazione, che alla fine divenne di terrore, orrore e disgusto.

In una riunione di fantasmi qual era quella mascherata, bisognava senza dubbio che si trattasse di un’apparizione straordinaria per produrre tanto turbamento. Invero la libertà nel mascherarsi non aveva quasi avuto limiti quella sera; ma il personaggio in questione aveva superato ogni aspettativa.

Anche per gli esseri che della vita e della morte si prendono ugualmente gioco, vi sono cose con le quali non si può scherzare. Così parve che tutti sentissero profondamente il cattivo gusto e la sconvenienza dei costume e del contegno di quell’estraneo. Alto, magro, egli era avvolto, da capo a piedi, in un sudario.

La maschera che ne celava il volto raffigurava con tanta perfezione le fattezze di un cadavere irrigidito che sarebbe stato difficile, anche ad un minuzioso esame, scoprirne l’artificio. Nulladimeno quei folli gaudenti lo avrebbero, se non approvato, tollerato. Ma la maschera s’era spinta al punto di assumere il tipo della Morte Rossa. Aveva il manto chiazzato di sangue e la larga fronte, e tutto il viso, cosparsi dell’orrore rosso.

Quando gli occhi del principe Prospero caddero su quella immagine spettrale — la quale, quasi a meglio sostener la sua parte, incedeva a passi lenti e solenni - «Chi osa?» domandò con voce strozzata ai cortigiani che gli stavano intorno. «Chi osa insultarci con un simile scherzo? Afferratelo e smascheratelo, così sapremo chi faremo impiccare domani, al sorgere del sole!».

Il principe Prospero si trovava nella sala azzurra, a levante, quando pronunciò queste parole, le quali si ripercossero forti e distinte in tutte e sette le sale; a un cenno della sua mano la musica s’era taciuta.

Si trovava nella sala azzurra, il principe, e aveva intorno un gruppo di pallidi cortigiani. Mentre egli parlava vi fu nei gruppo un leggero movimento nella direzione dell’intruso, il quale era anche a portata di mano, e d’un passo maestoso e risoluto si andava sempre più avvicinando; ma una indefinibile paura s’impadronì dei cortigiani, e nessuno alzò la mano per afferrarlo tanto che, siccome non gli veniva impedito, egli passò accanto alla persona del principe e, mentre la folla, in un unico impulso, si ritirava addossandosi ai muri poté andar diritto di sala in sala, dall’azzurra alla purpurea, da questa alla verde, dalla verde a quella arancione, dall’arancione alla bianca, e dalla bianca alla viola prima che si facesse qualcosa per fermarlo. Ma d’un tratto il principe Prospero, reso furente dall’ira e dalla vergogna della sua viltà d’un momento, gli si slanciò dietro a precipizio attraverso le sei stanze. Nessuno, per il mortale terrore che si era impadronito di tutti, lo seguì. Egli brandiva un pugnale e già, nel suo impeto, stava per afferrare lo straniero, quando questi, ch’era giunto in fondo alla stanza di velluto, bruscamente si volse ad affrontarlo. S’udì un grido acuto, e il pugnale scivolò, con un lampo, sul tappeto nero, sul quale, un attimo dopo, si abbatteva morto anche il principe Prospero. Animati dal coraggio selvaggio della disperazione, i cortigiani si precipitarono in folla nella sala nera, ma nell’afferrare lo sconosciuto, che se ne stava ritto ed immobile nell’ombra dell’orologio d’ebano, rimasero inorriditi senza respiro trovando vuoti il sudano e la maschera da cadavere che s’erano affannati a strappare con tanta rude violenza.

Si conobbe così la presenza della Morte Rossa. Come un ladro era venuta, di notte. E a uno a uno i convitati caddero nelle sale della festa irrorate di sangue, e come caddero, negli atteggiamenti della disperazione, rimasero morti. Con la vita dell’ultimo si estinse anche quella dell’orologio d’ebano. Le fiamme dei tripodi si spensero, E le tenebre, la rovina, la Morte Rossa stabilirono su ogni cosa il loro dominio senza limiti.

web.falco.mi.it

Edited by bluette - 21/3/2005, 10:24
 
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view post Posted on 12/3/2005, 13:30     +1   -1
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ma una riflessione personale no?
 
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bluette
view post Posted on 12/3/2005, 13:40     +1   -1




CITAZIONE (Maldestro @ 12/3/2005, 13:30)
ma una riflessione personale no?

Se era una provocazione, eccoti accontentato!


In qualche altra parte avevo accennato al mio amore per la vita, a tal punto che se avessi la possibilità di rivivere ogni attimo, di gioia come di dolore, identico a se stesso all'infinito, lo farei.
Questo non vuol dire che ho paura della morte. Sono d'accordo con chi disse che, se c'è lei, non ci siamo noi e, se ci siamo noi, non c'è lei.

Invece TU cosa ne pensi?
 
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view post Posted on 12/3/2005, 13:44     +1   -1
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io ho bisogno di tempo perché quando tento di fare un discorso articolato divago a mille (come ben sai).. solo che ora devo andare a fare la spesa se non voglio morire di fame..
quindi se ne riparla più tardi..

 
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view post Posted on 12/3/2005, 17:21     +1   -1
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la morte non mi fa paura per una serie di motivi..
innanzitutto ho cercato di avere una vita piena e sono piuttosto contento del risultato fin'ora ottenuto, ovviamente entro certi limiti e secondo una mia personale filosofia, costruita e corretta nel tempo.. tutto sommato potrei morire anche in questo momento senza eccessivi rimpianti..
inoltre non credo in un al di là, quindi penso che quando morirò cesserò semplicemente di esistere, non vedo nulla di pauroso nella non-esistenza..
certo un po' noia il pensiero di morire me lo dà, più che altro perché sarei curioso di vedere "come va a finire", di poter arrivare a capire l'universo e se nasconde uno scopo o è un evento casuale.. insomma tutte quelle cosette che con tutta probabilità non arriverà mai a capire nemmeno l'umanità intera nel corso di tutta la sua esistenza..
e a proposito mi piacerebbe anche poter arrivare a vedere quale sarà il cammino dell'umanità, come si evolverà e che fine farà.. il che mi porta a pensare che sarei curioso anche di conoscerne il passato, come sarei curioso di conoscere il passato del nostro pianeta e della vita su di esso, per non parlare del passato dell'universo stesso..
il che mi porta ad un'altra considerazione, ci agitiamo tanto al pensiero dell'eternità dopo di noi, con la consapevolezza di non poterne far parte (a meno che non ci affidiamo a una delle tante religioni consolatorie).. com'è che non ci angustiamo anche per l'eternità alle nostre spalle? non vi fa girare le tartaccole il pensiero di tutti quegli eoni senza di noi e di cui non abbiamo memoria? non è eternità pure quella?
tornando al discorso della morte l'unica cosa che temo è il dolore fisico, la sofferenza, o lasciare alle mie spalle situazioni difficili per chi resta.. per il resto ho una sana curiosità, intendiamoci, ho già detto che non credo in nulla ma c'è sempre la possibilità, per quanto piccola, che mi sbagli..
eventualmente vi farò sapere..
 
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grilloparlante
view post Posted on 12/3/2005, 19:06     +1   -1




Il cimitero, due risate, i ricordi.

Oggi, dopo pranzo, sono stato al cimitero, al Verano.
Adesso ci vado con meno rabbia verso chi vi si trova. Quasi mi tranquillizza. Mi sembra ci sia una trasmissione telepatica da me a loro di avvenimenti accaduti dall’ultima visita. E parlarne, ammettendo anche gli errori, mi fa bene.

Ma non è questo quello che importa.
Vorrei raccontare ciò che ho visto.

Dove vengono sepolti i bambini le cappelle sono ancora addobbate a festa per Natale. Ci sono fili luminosi e archi luminosi con lampadine colorate. E c’è il suono di un campanellino che il vento trasporta lontano. Si ode a tratti.

Dove invece stavo io in visita, nella parte cineraria, mi hanno colpito due lapidi.
Una, di un certo Adriano, recava una scritta in oro:
“Adrià……sà ribevemo”.
Beh, che vi devo dire? Io sono stato contento per lui, qualcuno, amici, parenti, figli, sente veramente la sua mancanza.

La seconda lapide vicino al nome portava scolpito il lupetto della Roma. Sopra vi era un piccolissima sciarpa della Roma.
Vi si intravvedeva una scritta. Ho scostato la sciarpa.
C’era questa frase:
“M’avevate detto de sta’ tranquillo. Era ‘na bugia. Mo’, sto’ tranquillo davero!”
Vorrei tanto che si riprendesse questa tradizione delle scritte sulle lapidi.
Qualcosa tipo: “Era un carogna di vivo, adesso finalmente lo è anche da morto!”, oppure: “Mi manca tanto, adesso la notte ho i piedi freddi.”, e così via.

Ma forse esagero.

Uscendo, come sempre, fermo la macchina verso la parte monumentale del cimitero. E vado a trovare Bruno Buozzi. Mi emoziona come la prima volta che, girando per il cimitero, tanti anni fa, me lo sono ritrovato davanti all'improvviso e mi ha assalito con tutta la sua storia e la sua leggenda. Lo considero un amico perduto, per questo lo vado a trovare.
Inevitabile, conoscendo un po’ di storia d’Italia, trarre delle amare considerazioni.
Lui, così tragicamente scomparso.
Il suo successore, Di Vittorio, che si picchiava con Caradonna (leggenda?) sulle scale della cattedrale di Cerignola.
Lama, gran signore, duro, paterno, un gigante capace di commuoversi, che pure già comandava un sindacato che ormai difendeva solo i lavoratori più forti. Quando gli lanciarono le biglie alla Sapienza, a Roma, non sapevo dar torto ai ragazzi, ma è come se avessero colpito anche me. Fu uno strappo tremendo.
E oggi? Oggi fa male vedere che il sindacato non è più vivo. E’ un anacronismo. E' vecchio. E' un mostro di burocrazia che si trascina faticosamente. Tra gli iscritti ha più pensionati che lavoratori attivi. E il suo direttivo se ne serve per lanciare il segretario in politica. Ma già, questo lo chiamano il “cinese”. E’ un’altra storia.
(magodellestelle : 16-02-2002 at 17:49)
 
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grilloparlante
view post Posted on 12/3/2005, 19:23     +1   -1




SI E' SPENTO L'UOMO CHE SI E' DATO FUOCO
(Giornale di Sicilia, 1998)


SI AVVERTE IL PUBBLICO CHE I GIORNI FISSATI PER LE MORTI SONO IL MARTEDI' E IL GIOVEDI' (Ufficio anagrafe a Reggio Calabria)

Un genovese rimane vedovo, si reca quindi al giornale locale per dettare il necrologio:
(Genovese): Scriva "MARTA MORTA".
(Impiegato): ...non aggiunge altro???
(Genovese): No no! ho già speso abbastanza!!
(Impiegato): Guardi che sino a 5 parole il costo è uguale.
(Genovese): ah, bè! allora scriva: MARTA MORTA, vendo Panda Blu.
 
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emme
view post Posted on 12/3/2005, 19:47     +1   -1




è Bach?
 
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bluette
view post Posted on 12/3/2005, 21:17     +1   -1




CITAZIONE (Maldestro @ 12/3/2005, 17:21)
certo un po' noia il pensiero di morire me lo dà, più che altro perché sarei curioso di vedere "come va a finire", di poter arrivare a capire l'universo e se nasconde uno scopo o è un evento casuale.. insomma tutte quelle cosette che con tutta probabilità non arriverà mai a capire nemmeno l'umanità intera nel corso di tutta la sua esistenza..
e a proposito mi piacerebbe anche poter arrivare a vedere quale sarà il cammino dell'umanità, come si evolverà e che fine farà.. il che mi porta a pensare che sarei curioso anche di conoscerne il passato, come sarei curioso di conoscere il passato del nostro pianeta e della vita su di esso, per non parlare del passato dell'universo stesso..
il che mi porta ad un'altra considerazione, ci agitiamo tanto al pensiero dell'eternità dopo di noi, con la consapevolezza di non poterne far parte (a meno che non ci affidiamo a una delle tante religioni consolatorie).. com'è che non ci angustiamo anche per l'eternità alle nostre spalle? non vi fa girare le tartaccole il pensiero di tutti quegli eoni senza di noi e di cui non abbiamo memoria? non è eternità pure quella?
tornando al discorso della morte l'unica cosa che temo è il dolore fisico, la sofferenza, o lasciare alle mie spalle situazioni difficili per chi resta.. per il resto ho una sana curiosità, intendiamoci, ho già detto che non credo in nulla ma c'è sempre la possibilità, per quanto piccola, che mi sbagli..
eventualmente vi farò sapere..  


Se, come penso, al momento della morte non abbiamo altro che il nulla, non ci saranno neanche rimpianti e curiosità e anche nel caso in cui non fosse proprio così, sentimenti come questi non avrebbero senso... troppo terreni!
Come disse Totò, "Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive: nuje simmo serie... appartenimmo â morte".



A Grillo, al quale piace andare in giro tra le tombe:

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'A livella


Edited by bluette - 12/3/2005, 21:19
 
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bluette
view post Posted on 12/3/2005, 21:20     +1   -1




CITAZIONE (emme @ 12/3/2005, 19:47)
è Bach?

Già...

Ciao Emme, bentornata!

 
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grilloparlante
view post Posted on 14/3/2005, 11:18     +1   -1




CITAZIONE
A Grillo, al quale piace andare in giro tra le tombe:


A Blue', a me non piace girare tra le tombe.
Vado al cimitero perchè mi manca qualcuno che lì. Con l'occasione mi guardo intorno.
 
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bluette
view post Posted on 14/3/2005, 11:21     +1   -1




CITAZIONE (grilloparlante @ 14/3/2005, 11:18)
CITAZIONE
A Grillo, al quale piace andare in giro tra le tombe:


A Blue', a me non piace girare tra le tombe.
Vado al cimitero perchè mi manca qualcuno che lì. Con l'occasione mi guardo intorno.

Come me infatti...
 
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view post Posted on 14/3/2005, 11:23     +1   -1
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veramente sarei fuxia

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io al cimitero ci vado di rado, molto di rado

da ragazzino col rino è successo una volta che ci siamo ritrovati in un cimitero di montagna, piccolo, tranquillo, praticamente un mortorio.. siamo riusciti a fregarci un paio di teschi dall'ossario, erano in ottime condizioni.. il mio l'ho ripulito e lucidato per bene, lo tenevo sulla scrivania nella mia camera con somma gioia della mia mamma
ogni tanto alzavo gli occhi da quello che stavo leggendo e lo guardavo, io lo guardavo e lui (o lei?!) mi fissava, con uno sguardo davvero fisso in quelle orbite vuote, fisso come non ne ho mai più rivisti
ci si faceva compagnia insomma.. anche lui, ne sono sicuro, si annoiava a stare da chissà quanto tempo in quel piccolo cimitero di montagna, senza più nessuno che lo andasse a trovare, senza più un pezzetto di terra dove riposare per conto suo
io gli ho ridato una casa, una scrivania economica finché si vuole, ma pur sempre più dignitosa di un ossario
gli ho dato anche un nome, lo chiamavo patroclo e lui era contento, me ne accorgevo da come evitava accuratamente di manifestare disappunto
non so con certezza che fine abbia fatto in seguito, ho abbandonato casa abbastanza presto e non ho potuto portarlo con me nei miei vagabondaggi, spero non abbia vissuto la cosa come un tradimento
il mio sospetto è che la mia mamma se ne sia liberata facendolo finire nell'immondizia, lei nega, addiruttura mi dice di non ricordarsi nemmeno dell'esistenza di patroclo ma io temo proprio..
patroclo, ovunque tu sia sappi che ti ho voluto bene
 
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